(di Chiara Pazzaglia)
Fino a un anno e mezzo fa, le pagine dei quotidiani locali erano occupate dal problema del momento: la mancanza di appartamenti in affitto per studenti e lavoratori fuori sede. Questi erano, insieme ad AirBnB, i principali concorrenti delle famiglie a basso e medio reddito. Una guerra all’ultima stanza, che aveva fortemente compromesso il mercato immobiliare bolognese. Tra manifestazioni e udienze conoscitive in Consiglio Comunale, che duravano giorni, il problema principale era quello della convivenza tra turisti e studenti, la cui presenza rendeva sempre meno disponibili soluzioni a prezzi accettabili per le famiglie. In centro, in particolare, era quasi impossibile trovare casa per un nucleo a medio reddito. A suon di 350, 400 euro ed oltre a stanza, ogni appartamento locato a studenti fruttava al proprietario fino a 1500 euro al mese, il doppio del valore di mercato e di quanto, ragionevolmente, poteva permettersi una coppia di lavoratori, magari con figli. Non solo: l’avvento del cosiddetto “numero chiuso” in quasi tutte le facoltà dell’Ateneo bolognese aveva reso difficile che, prima di settembre, gli alunni potessero essere certi della loro destinazione. Questo cambiamento aveva fatto sì che non ci fosse più il tempo di un’estate per scegliere, ma che la ricerca si concentrasse in un paio di settimane, in autunno inoltrato. Una corsa all’ultimo buco fatiscente perché, si sa, il miraggio dell’indipendenza nella metropoli più vivace ed amata dai “fuorisede” li portava ad accontentarsi di qualsiasi “topaia”. Gli stessi proprietari di casa, ormai, non facevano più nemmeno alcuna miglioria interna: tanto, agli studenti, “va bene tutto” e così, le case destinate ad essi erano diventate una categoria a sé. Garage, cantine, solai erano divenuti loft, mansarde o attici negli annunci. Senza contare che l’ampia possibilità di scelta lato domanda apriva la strada a discriminazioni di ogni genere: il classico cartello della Milano del boom economico, “non si affitta ai meridionali”, a Bologna era diventato “non si affitta agli stranieri”.
La bolla del turismo
Già nel 2019, dicevamo, Luca Dondi Dell’Orologio, AD di Nomisma, denunciava una nuova forma di concorrenza nel mercato: gli affitti brevi a scopo turistico. Molti eredi di case di genitori, nonni e zii, soprattutto in zona centrale o fieristica, si erano improvvisati imprenditori del mattone: la “città dei taglieri”, a suon di stanze da 100 euro a notte, stava diventando a tutti gli effetti meta di turismo di massa. Ma secondo Nomisma, la bolla era destinata a scoppiare. Di certo non pensavano alla pandemia che ci avrebbe travolti: "Oggi a Bologna ci sono due attività in cui ci si improvvisa molto: l'oste e l'host", affermava Dondi. Dei nuovi ristoratori "molti chiuderanno a breve", scommetteva l’AD, ma lo stesso discorso si poteva fare, a suo avviso, anche per chi si era lanciato nel mondo dei bed and breakfast e affini. L’idea era quella di un'ondata di ritorno, con tempi imprevedibili, ma la bulimia di immettere nel mercato della locazione a breve termine immobili, come se tutti potessero avere un tasso di saturazione del 70%, come alcuni del centro, aveva creato un falso mito. All’epoca, Dondi vedeva la situazione destinata a riequilibrarsi in qualche anno. Nessuno di noi, infatti, avrebbe mai immaginato l’avvento del Covid-19 nelle nostre vite. Allora, si studiavano leve fiscali per chi avesse optato per affitti lunghi, ma la strada indicata era soprattutto quella di uscire dalla contrapposizione tra amministrazione e proprietari, puntando tutto sui canoni concordati.
Il canone concordato
Bologna, in effetti, negli ultimi anni è divenuta una delle città italiane col massimo numero di stipule di locazioni a canone concordato. Bologna è stata la prima città, nel 2017 (e fino ad ora unica) che ha sottoscritto un protocollo di intesa con tutti i Sindacati dei proprietari ed inquilini per assegnare incentivi economici ai proprietari che riducono il canone di locazione o che lo trasformano da canone libero a canone concordato. I contratti siffatti, introdotti dalla legge 431/98, hanno una durata minima di 3 anni più altri due di rinnovo automatico (3+2). L'importo del canone di affitto è calcolato in base agli indicatori contenuti nell’Accordo territoriale, frutto della contrattazione tra i sindacati degli inquilini e le associazioni dei proprietari. I proprietari che adottano questo tipo di contratto godono di specifiche agevolazioni fiscali. A maggio del 2020, di fronte ai primi esiti della pandemia, il Comune di Bologna ha compiuto un passo ulteriore: oltre al contributo a fondo perduto per gli affitti su base Isee, rinnovato anche in questo 2021, ha siglato un protocollo di intesa con Università e Associazioni di categoria. Non era la prima volta che l’Università veniva interpellata in tal senso: infatti, a fronte dell’impegno della stessa nel far nascere nuovi studentati, da tempo vigeva una collaborazione fattiva dell’Ateneo con l’Agenzia delle Entrate per stanare i “furbetti” dell’affitto in nero. Il nuovo protocollo in vigore dal 2020 prevede meno tasse e incentivi per chi, prima, affittava ai turisti e ora invece affitterà a studenti o famiglie, ma se il costo dell'affitto scenderà di almeno il 30%. I contratti a canone concordato, come ricordato, erano già incentivati attraverso un’agevolazione Imu per i proprietari immobiliari (aliquota allo 0,76% anziché 1,06%). In questo modo i contratti di affitto che utilizzano il canone concordato in città sono, ad oggi, circa 32mila.
Il bando per i contributi sugli affitti del Comune di Bologna
Il Comune di Bologna, di fronte agli esisti della pandemia, ha stanziato inoltre un milione di euro nel 2020, uno e mezzo nel 2021, per sostenere gli affittuari che hanno un reddito medio basso e che sono stati colpiti nella capacità economica dalle misure di contenimento dell’emergenza coronavirus. In questo campo rientrano famiglie, lavoratori, ma anche studenti fuori sede a basso reddito, il cui reddito familiare abbia subito sensibili riduzioni. Lo scopo implicito è anche quello di trattenere in città i giovani e gli studenti dopo la laurea: Bologna invecchia, è a crescita zero da tempo, perché i numeri evidenziano come, al termine del percorso accademico, i giovani preferiscano mettere su famiglia altrove. Una sconfitta non solo in termini di accoglienza, ma anche di welfare famigliare, su cui, finora, il costo degli affitti aveva duramente pesato. Mentre scriviamo, si è appena concluso il secondo bando per ottenere un nuovo contributo per sostenere la spesa di massimo tre mensilità di affitto per un totale di 1.500 euro complessivi, destinati ai cittadini con un Isee fino a 35.000 euro. Nel 2020 sono stati impegnati 6,7 milioni di euro per contributi a fondo perduto a sostegno del mercato della locazione, di cui 2,5 milioni di risorse del Comune, gli altri statali e regionali. Questi contributi hanno sostenuto 4.850 nuclei familiari: vuol dire 1 inquilino su 10, considerati coloro che vivono in alloggi di mercato in città. Il bando ha riguardato le famiglie con Isee fino a 35.000 euro, qualora abbiano dimostrato un calo degli introiti nei primi mesi del 2021 pari al 20% del reddito familiare. Con un Isee da 0 a 17.154 euro non era necessario nemmeno dimostrare il calo del reddito, neppure in caso di beneficio di alloggio di edilizia pubblica.
L’unica criticità di questo bando è stata ravvisata nella necessità di possedere un’identità digitale: un passaggio non immediato per persone anziane o straniere. Alcune realtà associative si sono prontamente attivate per sostenere i cittadini nella compilazione delle domande, ma occorre fare un ragionamento complessivo ben più profondo su questi aspetti. Ancora una volta, infatti, il Terzo Settore è accorso per essere “stampella” dell’Ente pubblico, ma la crescente digitalizzazione dei processi rende complessa l’esigibilità dei diritti proprio per quelle categorie più fragili, che maggiormente beneficiano di misure di welfare.
Gli esisti delle restrizioni pandemiche sul mercato immobiliare bolognese
All’inizio abbiamo sempre parlato al passato, perché la pandemia ha profondamente cambiato il mercato immobiliare bolognese. La novità più rilevante, forse, è stata determinata dal primo lockdown e dal lavoro da casa che ne è conseguito: questi hanno dato una spinta notevole alle compravendite e alle locazioni in Appennino. Le restrizioni hanno prodotto la necessità di poter lavorare e trascorrere tempi di villeggiatura e riposo relativamente vicini all’abitazione principale, ma con il vantaggio di potersi muovere in spazi verdi e in condizioni di vita che lascino maggiore libertà. Anche le ferie estive, infatti, per il secondo anno di seguito si preannunciano a KM 0. La città capoluogo si è svuotata e ne soffre. The Economist a maggio 2020 ha pubblicato un’inchiesta dal titolo “Working life has entered a new era”, in cui si suddivide il nostro tempo storico in BC (Before Coronavirus) e AD (After Domestication). Secondo il settimanale di informazione politico-economica non sarà facile tornare nell’era BC: i datori di lavoro stanno risparmiando sui costi e i lavoratori apprezzano il nuovo work-life balance. Negli Usa il National Bureau of Economic Reserch (Nber), da mesi, studia gli effetti della pandemia sulla società e sul mercato del lavoro e in un recente report pubblicato a fine giugno 2020 ha ipotizzato che lo Smart working totale diventerà definitivo per il 40% delle imprese.
Intanto, in Italia dobbiamo affrontare una particolarità tutta nostra. Un gruppo di giovani professionisti e ricercatori di Palermo ha coniato il neologismo “South working”, lavorare (ma anche studiare) dal Sud. Hanno fondato un’organizzazione no profit che nell’ambito del progetto Global Shapers Palermo Hub, per studiare il fenomeno del lavoro da remoto, quando il datore di lavoro è localizzato al Nord, soprattutto Milano e Bologna, ma il lavoratore è del Sud.
Dopo avere affrontato la fuga dei cervelli, siamo di fronte a un riscatto del Sud Italia? Non proprio. Infatti, questa inversione di rotta può avere un seguito solo se implica, di conseguenza, investimenti infrastrutturali in un territorio storicamente in difficoltà. Avere più lavoratori da remoto non comporta necessariamente uno sviluppo locale, se a questo non fanno seguito investimenti nel lungo periodo. Scuole, ospedali, trasporti, innovazione tecnologica, servizi: sono aspetti da cui non si può prescindere in una prospettiva di ripopolamento stabile. Se i giovani che ‘invertono la rotta’ non hanno fiducia nel cambiamento vero del territorio d’origine, si sarà trattato solo di un temporaneo trasferimento.
Dallo spopolamento dei borghi a quello delle città, gli studenti (e i lavoratori) abbandonano le metropoli
Pensare che nel 2019 l’Istat pubblicava un report in cui denunciava lo spopolamento dei piccoli centri: ben il 60% di residenti in meno in 40 anni. L’Associazione nazionale comuni italiani (Anci) rispondeva con un’agenda del controesodo, suggerendo soluzioni per invertire il flusso delle partenze e portare nuove famiglie in quelle aree non urbane che, a fronte dei disagi che la loro collocazione potrebbe comportare, possono tuttavia offrire una maggiore qualità della vita e diventare motivo di attrazione. A un anno di distanza la situazione è ribaltata: è stato, infatti, il Sindaco di Milano, Beppe Sala, a lanciare un accorato appello via social per un ritorno al lavoro in presenza, dopo avere saputo che gli oltre 1.000 addetti di una nota società olandese avrebbero lavorato da casa fino, almeno, alla fine del 2020. Gli ha fatto eco il giuslavorista Pietro Ichino, che si è detto preoccupato per le perdite degli esercizi commerciali e del mercato immobiliare delle grandi città. Alessandro Santoni, giovane e combattivo Sindaco di San Benedetto Val di Sambro, località dell’Appennino Bolognese, da tempo denuncia il progressivo spopolamento del suo territorio e cerca soluzioni per porvi fine. Nel 2019, per esempio, ha stretto accordi con l’Università di Bologna, i proprietari di immobili, le aziende di trasporti, in un’ampia rete pubblico-privato, per attirare studenti fuorisede a vivere in paese. Da tempo, inoltre, studia e applica politiche familiari tutte volte al ripopolamento dell’Appennino, tanto da diventare un caso di studio persino per la Provincia autonoma di Trento, da sempre all’avanguardia su questi aspetti.
Già nel 2019 alcuni studenti avevano preso casa a San Benedetto Val di Sambro: da lì si spostavano per seguire le lezioni e sostenere gli esami. Gli ostacoli principali sono costituiti dalle infrastrutture: Santoni ha messo disposizione addirittura un car sharing per ovviare al problema del trasporto pubblico. Questo dimostra che, per attirare residenti, occorre pensare a politiche sociali e territoriali molto complesse, che non si possono improvvisare. Bologna ha poco più di 300mila abitanti e 75mila studenti: oggi, secondo l’osservatorio del sito Immobiliare.it, in città è disponibile il 270% in più di alloggi rispetto a due anni fa. A Milano parliamo addirittura del 290% in più. È abbastanza ovvio che questa assenza di studenti fuorisede pesi: sui bar, sui locali, sulle palestre, sui centri estetici, oltre che sugli alloggi. Secondo Confedilizia la situazione si assesterà nei mesi a venire. A oggi i prezzi degli appartamenti non hanno subito variazioni, ma l’attendismo degli studenti potrebbe portare a ribassi significativi di un mercato che aveva raggiunto i prezzi più alti degli ultimi anni.
Un altro dato in controtendenza sarà quello relativo alle dimensioni degli immobili locati. Se, prima, andavano per la maggiore i monolocali o gli affitti di singole stanze, adesso la ricerca si orienta su appartamenti più grandi, sia per poter avere una stanza da adibire a ufficio domestico sia perché la paura di un nuovo lockdown spinge a desiderare ambienti più spaziosi.
Lo sviluppo di un’inedita demografia urbana
Gianluigi Bovini, statistico e demografo, osserva come le persone si spostino, in generale, dove stanno meglio, in quanto molto sensibili agli stili di vita. La condizione perché questo sia possibile è che “i servizi sanitari e commerciali vadano verso il cittadino, invece che viceversa”. Perché si compia una migrazione in senso inverso è necessario che i servizi, come la consegna della spesa a domicilio, la telemedicina, la possibilità di assistere, magari a distanza, a spettacoli, conferenze ed eventi culturali, possano raggiungere le persone anche nelle periferie.
Il vantaggio non sta solo nell’ambiente naturale migliore, ma occorre pensare ai prezzi delle case, molto più bassi. Questo benefit non deve essere, tuttavia, annullato da costi di trasporto che compensino le spese di alloggio inferiori. Per questo si può pensare di realizzare un sistema ‘misto’ di lavoro a distanza e in presenza, che permetta di riequilibrare le spese, con un occhio di riguardo all’ambiente e all’energia. Bologna, in particolare, è il primo Comune in Italia che ha raggiunto il pareggio di bilancio e ora l’Assessore Davide Conte, che ha proprio questa delega, è impegnato in difficile bilancio preventivo 2021-23. “Si parla spesso degli impatti del lockdown a livello sanitario, sociale ed economico. Ma è molto importante anche l’impatto sull’urbanistica. Negli ultimi mesi abbiamo osservato uno strano paradosso: i centri direzionali di ultima generazione sono vuoti e sembrano i castelli addormentati delle favole mentre i vecchi quartieri periferici, definiti un tempo ‘quartieri dormitorio’, sono diventati il centro di lavoro, di consumo e di vita familiare”, osserva Conte. “Si tratta di trasformazioni dell’uso degli spazi della città e dei tempi di vita dei cittadini, con impatti di natura economica e sociale, perché si sono modificati i trend di rendita e i flussi di mobilità. Si tratta di ripensare le nostre città su queste nuove dimensioni e ritmi di vita, forse per la prima volta coerenti con un’idea di sviluppo sostenibile delle nostre città”.
Ma urbanistica e casa hanno bisogno di ripartire costruendo dal basso le loro proposte, per poi leggerle all’interno del quadro più ampio degli indirizzi politici di una città. Occorre pensare alto: la politica ha questo compito e l’urbanistica è parte integrante del fare politica, è una delle prime leve per fare “politica” in una città. La casa è un pilastro fondamentale, soprattutto nelle grandi città, per costruire sane politiche sociali. Quanto più aumentano i prezzi degli alloggi, tanto più lo fanno le disuguaglianze all’interno di una città. Occorre comprendere che l’“urbanistica contrattata”, sostenuta da diverse amministrazioni, ha dimostrato che, quando genera benefici, li riserva per lo più alle fasce medio/alte, con effetti poco o per nulla positivi per il resto della popolazione, senza incidere tangibilmente sulle aree più svantaggiate delle città. Ecco perché è necessaria una pianificazione urbanistica che non sia subalterna al capitale, ma che dia indirizzi e governi i processi pianificatori con una stretta collaborazione tra azione privata e indirizzo pubblico. Deve saper mettere in campo le risorse del mercato privato, affidando però alle istituzioni pubbliche la funzioni di regia, di guida e di controllo. Grazie a questa virtuosa azione combinata deve investire strategicamente su un nuovo modello di metropoli policentrica, redistribuendo le ricchezze verso i luoghi più svantaggiati e meno “interessanti” per offerta di funzioni e servizi collettivi.
Abitare le periferie
Come dice Papa Francesco, come ribadisce spesso il Cardinale Zuppi, è solo dalle periferie, urbane e sociali, che può partire la vera novità e il vero riscatto sociale. Per questo da una parte si dovrà lavorare “estraendo” alcuni pezzi di città dal mercato speculativo per destinarli ad edilizia convenzionata, affidando ad operatori che, non perseguendo il solo fine speculativo, riescano a portare all’interno di aree di maggior pregio anche ceti più poveri. Dall’altra, sarà necessaria una pianificazione mirata per le periferie che, oltre a redistribuire risorse nuove ed esistenti, proponga interventi di mix sociale e funzionale che spezzino le ghettizzazioni spesso tipiche delle aree marginali delle grandi città, mischiando ceti e popolazioni. Infine, devono essere avviati processi di coesione sociale che, operando sugli spazi pubblici e collettivi, rompano la segregazione, anche spaziale, in cui versano molte delle periferie delle nostre città.
Sono diverse le analisi che dimostrano come le disuguaglianze all'interno delle città europee siano aumentate massicciamente a causa della “casa”. I ridotti investimenti sugli alloggi sociali, la mancanza di nuove costruzioni per i lavoratori, l’aumento delle rendite fondiarie e l’assenza di una significativa offerta di alloggi in affitto hanno fatto crescere, negli ultimi venticinque anni, i prezzi delle case e con essi la forbice tra i ceti residenti nelle città. A un certo tipo di offerta abitativa che un territorio offre, corrisponde oggi un certo tipo di società, sia in termini di ceto ospitato, sia di relazione che si costruisce tra gli abitanti. Studi autorevoli (ad es. Scott Galloway) dimostrano che, dal Cap di residenza al momento della nascita, si può calcolare con approssimazione abbastanza precisa il reddito di un individuo da adulto. Ecco perché occorre affondare la riflessione e la proposta verso politiche abitative che offrano case “affordable”, non riferendosi solo alle fasce più deboli, ma a tutte le categorie di abitanti la città: dagli homeless ai ceti medi. Il punto, infatti, non è tanto concordare sull’importanza di alloggi a prezzi accessibili, assunto che pare oggi universalmente condiviso, ma fare pressione perché vi sia spazio nella pianificazione per case a prezzo accessibile. Solo un’azione di questo tipo potrà realmente favorire mix abitativo che incida sulle diseguaglianze sociali.
Welfare abitativo
Nessuna azione pubblica che voglia offrire esclusivamente soluzioni alla domanda sociale di casa può considerarsi davvero efficace. La casa deve rientrare all’interno di un sistema di welfare che si occupi complessivamente di tutti i bisogni della persona e di tutte le persone, anche di quelle non ancora in situazioni di povertà, ma che rischiano di “scivolarci” dentro. Considerato che il costo per la casa in una città spesso incide, soprattutto sulle fasce più deboli, per oltre il 30/40 % del reddito familiare, costo che per sua natura è da considerarsi spesso difficilmente “comprimibile”, sono necessarie politiche di welfare che prendano in carico e mettano al centro l'intero nucleo familiare, tenendo conto dei bisogni e della situazione particolare di ogni famiglia. Per questo occorre costruire una proposta di welfare abitativo con criteri più articolati e meno “oggettivi”, non solo basati sul prezzo della casa e del mercato, ma maggiormente “soggettivi”, basati cioè sulle condizioni reali del nucleo familiare letto nel suo insieme.
Per sostenere e favorire processi stabili di ridistribuzione sociale e economica è necessario che, tanto la progettazione dei nuovi spazi urbani, quanto la rigenerazione di quelli esistenti, recuperi e valorizzi gli spazi collettivi che si prestano a diventare luoghi di incontro e socialità, capaci di attivare processi di coesione sociale.
Occorre immaginare gli spazi aperti, piazze e strade, non più solo elementi funzionali e come infrastrutture unicamente destinate alla mobilità e al transito dei veicoli, ma come luogo di incontro, di socialità, svago e apprendimento.
Ciò che è emerso attraversando questo difficile periodo della pandemia è che le persone hanno bisogno di nuovi spazi e occasioni di relazioni, ma non di un ampliamento degli spazi privati. Progettare partendo dal distanziamento può portare ad esiti pericolosi. Siccome siamo angosciati, ci precipitiamo a schematizzare e destrutturare la città, ma dobbiamo tener presente che il distanziamento è innaturale: è necessario ora, perché sennò ci contagiamo - e va quindi rispettato; diverso è scambiare l’eccezione con la regola.
Una volta che, come si spera, il Covid-19 sarà reso inoffensivo, si assisterà a una fiammata di socialità, per certi versi simile a quella che si è registrata nell’ultimo dopoguerra. A noi il compito di iniziare a pensare oggi a una città e a degli spazi abitativi che sappiano, più di prima, essere di supporto e di aiuto per crescere le occasioni di incontro, evitando di spingere oltre il carattere fortemente individualista che spesso domina le nostre città.
Bologna, aprile 2021
REALIZZATO CON FONDI DEL MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO. RIPARTO 2020
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